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Luca Barcellona / Lord Bean – Ink and Beats


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DI SID

Luca Barcellona, conosciuto nell’ambiente Hip Hop come Lord Bean o Bean One è un artista poliedrico, writer, rapper, graphic designer e figura di riferimento nel panorama della calligrafia moderna internazionale.

Formatosi come writer e grafico negli anni ’90, ha saputo fondere la sua esperienza nel movimento Hip Hop e nel writing con lo studio approfondito degli stili calligrafici classici, creando un linguaggio artistico unico e innovativo.

Dal 2007 insegna calligrafia con l’Associazione Calligrafica Italiana e nelle principali scuole di design, tenendo workshop e conferenze in tutto il mondo. Ha collaborato con importanti brand internazionali come Nike, Absolut, Pirelli, Universal e Mondadori. Le sue opere sono state esposte in numerose gallerie e fanno parte di collezioni permanenti prestigiose.

Nel 2012 ha pubblicato la sua prima monografia “Take Your Pleasure Seriously” e nel 2021 il saggio “Anima & Inchiostro” per Utet, da poco è uscita la sua seconda monografia “Do the Write Thing”, rispetto al suo primo libro questo ha un carattere più introspettivo, riflettendo la pratica non più di un semplice calligrafo ma di un vero artista che utilizza la calligrafia come mezzo espressivo  Oltre alla sua attività artistica, è anche appassionato collezionista di dischi in vinile e co-fondatore della casa editrice Lazy Dog Press.

Sid: Parliamo del tuo nuovo libro, l’ultimo che hai pubblicato.

Luca: Più nuovo di così… sto aprendo il celophane proprio adesso.

Sid: Già dal titolo, “Do The Write Thing”, si capisce qual è la tua provenienza. C’è questa citazione che possiamo cogliere.

Luca: Ah, certo. Forse è una delle poche occasioni in cui non devo spiegarlo.

Sid: Quindi si vede chiaramente la tua origine, da dove arrivi e, in un certo senso, il tuo percorso.

Luca: Ma sì, in qualche modo. E poi, a me piace giocare con le parole. Non ho fatto solo il calligrafo, ma anche altre cose in cui le parole si usano in maniera importante. Alcuni mi conoscono anche per quell’aspetto della mia produzione. Direi che “Do The Write Thing” era il titolo perfetto. Lo aspettavo da tempo. Non sono l’unico ad aver avuto questa idea, però per il mio percorso era perfetta. Parla proprio del mio cammino nella scrittura. Quindi “fai la cosa scritta”. Assolutamente, è la cifra stilistica con cui mi sono espresso meglio e più a lungo.

Poi non basta, per cui assieme al mio lavoro di calligrafo, quindi di artista anche – ultimamente molto più orientato alla produzione artistica – ho iniziato a utilizzare la calligrafia, quello che ho imparato in questo mondo che è molto tecnico, molto manieristico, anche molto artigianale. Utilizzo questi strumenti per creare qualcosa di diverso dalla calligrafia classica che uno si immagina. Quindi, un trattamento estetico con le parole, partendo dal manoscritto, dal copista che riempiva libri di testi, spesso religiosi, poi di altra utilità; al calligrafo che crea la sua opera con lo stile che meglio gli riesce, che meglio esprime la frase, ad esempio, al servizio di qualcuno, al servizio del testo. Io ho iniziato a utilizzare questi strumenti per esprimermi. Questo è un uso molto diverso, perché lì puoi contaminare le tecniche antiche con le cose che hai imparato, invece, nella tua vita e che sono ancora da codificare, in un certo senso.

Il writing, anche lui come l’Hip Hop, ha ormai cinquant’anni, però non è ancora nei libri di storia dell’arte. Qualcosina comincia a entrare, la street art comincia a essere considerata perché è popolare. Il writing è sempre visto come una cosa da ragazzetti, però lo studio delle lettere – una cosa che fanno i calligrafi, i type designer, i tipografi – ora la fanno i writer.

Nella mia visione c’è l’idea di far dialogare una tradizione così antica come la calligrafia, che ha migliaia di anni, con una cosa relativamente nuova, che è il writing. Quest’ultimo mi ha dato la spinta per fare questo, cioè “fai la cosa scritta”.

Dentro questo libro ci sono cose classiche, ci sono sketch di writing, ci sono dei pezzi. Per me è tutto parte di questo percorso. Poi a un certo punto ti rendi conto che sei un artista perché ti devi esprimere in qualche modo. Fai pace anche con questa parola altisonante che magari ti evoca figure enormi del passato – farti chiamare artista, non so, come Burri, Fontana – però poi capisci che invece non è una parolaccia, ma è la parola giusta. E devi anche capire qual è la tua migliore cifra espressiva.

Di sicuro per me è stata questa: poter scrivere anziché parlare è una cosa che, boh, non so, tocca le mie corde migliori. Ma non basta, per cui ogni tanto mi viene ancora da scrivere in un altro senso, cioè registrare dischi.

Ho fatto diversi dischi, Hip Hop e non. Però quella è una passione che mi sono voluto tenere per me, non ho voluto che diventasse il mio lavoro, ecco. Io non ho mai fatto il rap professionalmente, ma il mio approccio alla scrittura e alla progettazione di un disco, di un pezzo, di una strofa è sempre stato quello. Ovvero, con quell’idea: “questa è la cosa migliore che posso fare in questo momento, posso morire domani, ma meglio di così non posso fare”.

Non l’ho mai buttata lì troppo. Se l’ho fatto, me ne scuso con me stesso perché non dovrei. E allo stesso tempo è talmente totalizzante come cifra espressiva, perché ti esponi con la tua voce, con la tua faccia, con i tuoi pensieri, con le tue paure.

È una sorta di seduta psicologica in cui dici i fatti tuoi a tutti, e cerchi però di farlo in un modo che tocchi le corde anche degli altri: parto dal mio, arrivo al tuo.

Questa cosa qui è sempre stata un po’ quello che mi ha guidato. Non c’è altro modo per “urlare” certe cose, certe espressioni di rabbia, di frustrazione per me, se non come poetry, rap, chiamalo come vuoi.

Non so se è completamente Hip Hop. A volte lo chiamo “dark rap” perché veramente io, quando sono felice, non scrivo un pezzo rap; esco con mia figlia al parco, capito?

Ma questa roba la diceva anche Tenco: “perché scrivere canzoni tristi? Quando sono felice esco”. Si vede che quello è il tuo modo per esorcizzare o comunque visualizzare le tue parti più oscure, ecco.

Quella cosa lì me la sono sempre tenuta per me, però alla fine ho sempre lavorato con le parole a 360 gradi e, niente, questo è il senso di questo libro. È una raccolta, un diario di quello che ho fatto negli ultimi 12 anni.

Quello precedente ha un bel titolo: “Take Your Pleasure Seriously”, come a dire “occhio alle cose che ti piacciono”.

È una frase di Charles Eames, che stimo molto, mi aveva colpito, perché questo era il mio primo libro che raccontava quello che mi era successo, che era una storia di piacere, di passione. Noi tutti abbiamo iniziato a fare writing per passione, mica dicendo “un giorno farò il writer”. Non c’era la possibilità; ora si può fare. C’è gente che fa il writer, vive di questo, con fatica.

E quindi mi piaceva molto il concetto. C’è un’altra frase che ho scritto in una stampa, una serigrafia, che dice “Protect me from what I want”, che a sua volta è stata presa da altre fonti. Devi stare attento a quello che ti piace perché ti può in qualche modo anche danneggiare. Diventi vittima di quello che ti piace, quello che ti piace diventa il tuo lavoro, quello in cui la gente ti contraddistingue, ti identifica. Quindi poi, se ti stufi, non puoi più farne a meno e sei schiavo di questa cosa che ti piaceva e deve continuare a piacerti.

Quindi il primo libro parlava più del preservare la passione, cioè dire “come faccio a farmi piacere una cosa che prima volevo fare e adesso devo fare?”. Molto diverso, vero?

Per cui il rap, per esempio, resterà sempre un mio hobby. Cioè, non lo faccio perché qualcuno me lo chiede, lo faccio quando mi viene, quindi con i miei tempi. In questo senso, mi sembra di poter dire che non devo nulla a nessuno; casomai ho regalato qualcosa. Invece, nel mio lavoro, mi è interessato innanzitutto poter raccontare dal mio punto di vista la mia storia. Questo è ben diverso dall’essere narciso, egocentrico. Il fatto è che se non racconti tu la tua storia, la racconta qualcun altro e quindi potrebbe non essere completamente vera o puntuale, oppure non la racconta nessuno.

Io ho una casa editrice, Lazy Dog, l’abbiamo fondata io e Riccardo Bello, che ha fatto il grafico fotolitista tutta la vita e poi a un certo punto ha detto “voglio avere una casa editrice” e ha deciso di iniziare dal mio libro. Ci siamo chiesti: “ma come lo pubblichiamo?”  e abbiamo deciso di fondare una casa editrice!

Abbiamo pubblicato molti libri, abbiamo fatto anche un manuale di calligrafia che contenesse esempi di scrittura fatti bene. Ce ne sono tantissimi di manuali; secondo me, molti non sono fatti come dovrebbero. Ma non sono mai stato lì a dire “ah, quel manuale è brutto, quel libro è brutto”. Ho sempre pensato “ok, io che cosa posso fare per farne uno migliore?”. Ne produco uno, non senza difficoltà.

Non si guadagna da queste cose. Si guadagna, magari, in prestigio, conosci delle persone, sì. Però non diventi ricco, però sei libero. Sei libero di fare le cose come vuoi tu e, se le fai bene, anche di vederle distribuite in maniera capillare. Tu sai bene cosa vuol dire. Hai iniziato facendo una piccola fanzine, poi ti sei ritrovato in edicola e lì iniziano i dolori e le gioie.

Sid: Questa è una cosa molto Hip Hop. Quella per cui, se c’è qualcosa che non ti piace, te la fai da solo e cerchi di farla come vorresti fosse, no? Il fatto di aver fondato Lazy Dog, con cui avete pubblicato molti altri libri super belli, molto curati, va in questa direzione. Come il fatto di fare, come dicevi, quello che vuoi con la tua libertà di esprimerti.

Luca: Sì, nel mio caso in particolare, nelle cose che faccio, che sono libri che raccontano le mie esperienze. Quindi, in questo caso, l’ultimo libro è una raccolta di 12 anni di lavori. In questi 12 anni ho lavorato in modo costante e anche duro. Ho fatto cose che non potrei più rifare: essere sempre in viaggio per mesi a insegnare calligrafia, a dipingere. Ho lavorato tanto nella pubblicità, quindi ho capito i meccanismi, però è una cosa che ti prende tante energie, anche a livello fisico e a livello di rapporti. Ho rinunciato a decine di amicizie che avrei voluto coltivare perché ero concentrato sul mio lavoro.

Nel momento in cui è arrivata mia figlia, mi sono concentrato più su di lei, ho tirato un po’ il freno sul lavoro, quindi non faccio più quella vita lì. Il Covid ha anche cambiato il sistema di insegnamento. Per esempio, ci sono molti più corsi online. Una volta andavo in Giappone per insegnare a 25 persone; ora mi collego e ci sono 200 giapponesi dall’altro lato dello schermo. È diverso. Però andare in Giappone è un’altra cosa, tu lo sai.

Sid: Sì, certo,  comunque questo tipo di vita impone delle rinunce.

Luca: Persone che pensano che tu sia ricco facendo queste cose, quindi ti guardano in un altro modo. Che ti devo spiegare che non è così? Non mi crederai mai se ti sei fatto la tua idea, sai? Perché poi quelli che fanno le cose da sé vengono visti anche un po’ come “ma chissà che manina pasta che ha, chissà chi conosce”. Conosci le persone che devi conoscere: quelle brave e che fanno la loro parte. In una casa editrice ci sarà un editore, quindi c’è uno stampatore bravo, dei grafici bravi, della gente che scrive e degli artisti di cui fare i libri. Posso dirlo già qui. Sto lavorando con grande felicità al libro di Zero T, stiamo iniziando adesso, ha dei tempi abbastanza lunghi. Però, per dire, Zero T, che è un writer incredibile, ma anche un artista incredibile, scultore, pittore… Io, quando avevo, boh, non so, 14 anni, entravo da Fiorucci a Milano e c’erano già le magliette disegnate da lui, lavorava già col writing ed erano i primi anni ’90 e pochissimi conoscono la sua storia. È uno anche, secondo me, molto riservato, timido, che produce tantissimo, molto sensibile. Ecco, il fatto di poter dire “ora racconto la sua storia in un libro” implica il fatto che io lo conosca, ma che lo conosca anche più approfonditamente come persona, non solo come artista, ed è un privilegio. Però poi questo privilegio viene condiviso attraverso il libro che arriva a tutti ed è una storia raccontata.

È molto diverso fare marketing, cioè capire un po’ che cosa potrebbe andare, “un bel libro sulla street art, stampiamo un bel libro sulla street art”… non te ne frega, si vede che non te ne frega niente, che lo vuoi solo vendere. Invece si vede, d’altra parte, quando sei appassionato… È chiaro che faccio scrivere a DeeMo un testo ad hoc su Zero T, lo conosco? sì, perché abbiamo lavorato assieme, ha scritto i testi del mio primo libro e ne sono fiero. E questo è quello che si crea: una sinergia di persone che condividono un ambiente, una storia che è quella dell’Hip Hop italiano, che è molto diverso da quello statunitense e che poi creano qualcosa, lasciano un segno del loro passaggio. Quindi raccontare la propria storia, per chiudere questo discorso, è per me fondamentale farlo in prima persona.

Va bene farsi scrivere i testi critici. Questa è una mostra che ho fatto, si chiama “Lost Books”. Qui c’è un testo mio e un testo di Fabiola Naldi, che è una critica d’arte e non solo, è un’esperta di questo mondo, è una delle poche che ha voce in capitolo parlando di cose nostre – posso dire cose nostre – da writer, non da artisti, da graffitari inseriti in certi circuiti dell’art, no, no, proprio da writer.

Però ho scritto anch’io, perché due parole sul mio lavoro le posso dire, e trovo che questo sia molto bello, cioè è forse il senso di tutto: fare le cose che ti piacciono, farle seriamente, farle diventare anche un lavoro – e il lavoro è dannatamente serio – e nello stesso tempo raccontare del tuo passaggio su questo pianeta che alla fine è l’unica cosa tangibile che abbiamo in mano, tutto qui.

Un’altra cosa di cui ti volevo parlare velocemente è che non c’è solo roba Lazy Dog.  “Anima e inchiostro” è un libro che ho fatto per UTET, quindi una casa editrice, una divisione di De Agostini, molto importante per me perché su UTET ho letto delle cose incredibili di autori incredibili. Il libro parla della filosofia che per me c’è dietro alla scrittura, ma non soltanto la calligrafia, proprio la scrittura in generale. La scrittura è una cosa che si evolve e ha a che fare con la tecnologia. Quindi una volta scrivevi con un calamo tagliato, poi cominci a scrivere con i pennini, strumenti sempre più sofisticati, poi negli anni ’60 arrivano le biro, tutti i tipi di matite, tutta l’industria della cartoleria e queste cose. Ma adesso questa cosa è diventata un po’, non dico per addetti ai lavori, ma è diventata un po’ più con una finalità estetica. Quindi c’è gente che scrive, disegna perché sente la necessità della fisicità. C’è gente che scrive per lavoro da un’estetica come noi calligrafi, e c’è gente che invece, se deve comunicare, lo fa in altri modi più pratici. Questo perché avere un taccuino con una penna, una matita e scrivere un appunto è molto più laborioso che dettare a un telefonino una cosa che poi viene scritta automaticamente e che riconosce addirittura il tuo modo di parlare, la tua lingua, la tua voce. Non prendiamoci in giro, se uno poi vuoi fare il nostalgico, dice “ah, però la scrittura…”.

Questo cambierà, e quindi l’estetica, chi mantiene, chi preserva questa disciplina nella sua maniera più artistica, appunto, sarà ancora più importante perché diventeremo degli ultimi Ronin. E questo non credere, bastano un paio di generazioni.

Sid: Il tuo lavoro è basato molto sulla fisicità. Gli strumenti, gli inchiostri, la carta, la tela. E in un mondo in cui stiamo andando verso l’intelligenza artificiale che fa tutto – ti fa anche le calligrafie se gliele chiedi – però te le fa lei e tu ti limiti a dargli il “prompt” quando hai il risultato ti sembra quasi di averlo fatto tu, ma in realtà non è così.

Come ti vedi in questo mondo in cui c’è sempre meno fisicità ed è sempre tutto più digitale, ogni cosa viene presa ad un livello superficiale, perché fatta senza fatica?

Luca: Ah, come mi vedo? Mi vedo un po’ nel mezzo fra le due cose, fra il passatismo e la modernità. Non sono un passatista; semplicemente io sono cresciuto in quel modo lì, come te. E ho fatto una scuola di grafica dove ogni lunedì facevo un impaginato basato sulla prima pagina del Corriere della Sera, e facevo delle campiture ad acrilico, piatte, perché dovevano essere perfette.

Questa è la mia attività, cioè sono uscito da lì fino agli anni ’90 quando si è iniziato ad usare il computer. Venivo da te e mi dicevi “portami queste foto, me le salvi in JPEG a questa risoluzione”. Io non sapevo di cosa tu mi stessi parlando; io avevo le fotografie e poi ho imparato. Però lì ho detto “ok, sono in mezzo a due fuochi”.

Uno è quello che mi piaceva fare, che è la grafica, dipingere e progettare a mano, e l’altro è la tecnologia che sta arrivando e che sostituirà tutta questa cosa.

Allora ho preso questa strada di mezzo che ho fatto fatica a trovare. Però non sono proprio un prodotto dei miei tempi, non sono così sposato con la tecnologia, rallento sempre di più il momento in cui mi compro un telefono nuovo, un computer nuovo. E nello stesso tempo ho imparato anche a non circondarmi di troppi strumenti fisici; ne ho tanti, però alla fine usi quelle 3-4 penne che ti piacciono, che sono le tue preferite e che sono la tua voce. Il tuo tono di voce è fatto dallo stile e dagli strumenti che usi. E hanno dei toni diversi. Se scrivo una parola in corsivo inglese o in gotico o con uno strumento per la calligrafia espressiva pieno di schizzi, così, la parola ha un effetto diverso, ha un tono di voce diverso, esattamente come le persone che parlano, perché c’è l’anima dentro. E questa cosa non si può sostituire completamente, per quello che mi riguarda, con gli strumenti digitali. Quindi, per dire, ho provato Procreate, iPad, ogni tanto mi capita. Ho consegnato uno dei bozzetti l’altro giorno, e questo mi ha detto “ah sì, questi qui sono un po’ puliti, li hai fatti con Procreate?”. Io gli ho detto “no, li ho fatti a mano, però sono una carta da layout con uno strumento nuovo, erano puliti”. Ma non si immaginano neanche più che c’è uno che scrive lì sopra, capito? E questa cosa un po’ mi diverte, perché dico “guarda, li ha scambiati per un computer”. Oppure a volte è successo che mandassi dei lettering a persone che non conosco e mi chiedono, mi commissionano delle cose. Ne avevo fatto uno molto preciso, proprio fatto pulito, come andava fatto. E questo mi scrive “ah, mi stai prendendo per il culo, questo è un font!”. E così… ma ho dovuto mandare il video che lo stavo facendo. E lì ho capito che, per esempio, fare una scrittura più sporca ha più senso adesso, perché rende quasi più evidente che è stata fatta a mano. Questo perché essere preciso, come quando si disegnavano le copertine dei libri a mano, sono quasi come quelle stampate.

Io le vedo le imprecisioni, vedo a volte le sfumature dell’inchiostro, certi dettagli. Però si tendeva a fare quello che fa adesso un computer, la computer grafica.

Nessuno fa più la calligrafia.

Prima era una materia per fissare il proprio pensiero in maniera ordinata, quantomeno, se non bella, perché calligrafia vuol dire quello, bella scrittura. La gente dice “io ho una bella calligrafia o una brutta calligrafia”, che è una contraddizione.

Però la parola ha sostituito la parola grafia, perché la calligrafia non c’è più come materia. Quindi diventa una cosa per esperti, per gente che la pratica, e non puoi anche dire “è più bravo un professionista”.

È un casino. Ho scritto nel libro nuovo e non ho scritto solo io, ho dovuto chiedere ad altri 6 o 7 calligrafi importanti cosa ne pensassero.

Cosa vuol dire fare il calligrafo quando non serve un’abilitazione? Mi sveglio e dico “faccio il calligrafo” e Forrest Gump ti direbbe “calligrafo, è chi calligrafo fa!”. Nel senso, se fai tutti i giorni questa cosa e vivi di quello, farai il calligrafo. Però non c’è nessuno che ti dice “ok, lo puoi fare”, mentre in tutte le altre professioni si fanno degli esami.

Allora, se abbiamo aperto questo vaso di Pandora, è uscito di tutto. La discussione è nata da decenni: che non si può… che un vecchio signore che ha fatto calligrafia tradizionale giudichi un writer, un tatuatore che fa calligrafia a c***o, come fa?

Sono troppe cose diverse insieme e soprattutto è venuto fuori anche questo aspetto: un calligrafo giovane che lavora nel lettering, che fa copertine, scritte per loghi, tattoo, quello che vuoi… però se ha vent’anni avrà le esperienze di vent’anni e un hobbista in pensione che magari l’ha fatto per tutta la vita sarà più bravo di lui, ma non lavora. Quindi chi è il più bravo?

È molto più complesso di così. Internet in generale, i social così, richiedono una semplificazione. È per quello che io non spiego le cose lì sopra, non più di tanto; mi annoio io a leggere perché è proprio una cosa di velocità, di testi brevi, immagini brevi, cose che succedono.

Sid: Comunque internet ha aiutato un po’ la rinascita, tra virgolette, della calligrafia. Si dice sempre che i social adesso sono un’amplificazione maggiore rispetto a prima.

Luca: Sì, ti si potrebbe dire del writing la stessa cosa, no? Una volta, ti ricordi, no? Magari io avevo sentito che a Praga facevano un certo tipo di graffiti stranissimi presi a loro volta da influenze di Berlino, e andavo a Praga a vederli. Adesso ti metti sul computer, telefono e te li guardi da qua, e quindi tutti possono fare tutto. Prima le influenze venivano in Europa dagli interrail, no? La gente aveva avuto questa possibilità di viaggiare, conoscere altri writer, prendere altri stili e poi li portava. E poi ci sono stati gli aerei low cost e ti hanno permesso di andare oltremodo in altri luoghi facilmente per un lungo periodo. Queste sono influenze che prima non c’erano. 

Però tornando ai social ecco, quello che non c’è è la profondità.

Per cui scrivere i propri pensieri su un libro fa quasi paura, eh, perché l’ho detto un po’ di volte: questa roba di “scripta manent” non è una cavolata. C’è un aneddoto che ho raccontato un po’ di volte: una volta avevano fatto una recensione così così del mio libro, credo questo, era un po’ insidiosa e non mi piaceva. Non perché l’avessero recensito male di per sé, ma perché era messo a paragone con un altro libro.

Ho detto “vabbè, gli scrivo”, ma questo… io non dico… era uno, l’aveva fatto anche in buona fede. Però gli ho scritto, e questo si è seccato perché evidentemente non ero l’unico che gliel’aveva fatto notare, e ha detto “adesso la cancello dal blog, cancello la recensione”. E sì, però quando stampi, questo non lo puoi cancellare.

Cioè, se hai scritto una cavolata qui, resta, e questa roba è pesante ed è ancora così. Solo che resta per chi va a leggerla, per chi ha voglia di farsi questo viaggio. Ed è un livello di comunicazione più profondo perché per esempio non ha quella dinamica della risposta immediata d’impulso che sono quel cloaca che sono i commenti sui social. Ogni tanto ce n’è uno puntuale, pedissequo, e cento fanno venire voglia di andare su un altro pianeta perché dici “l’umanità è tremenda”. No, è che lì ci va tutta l’umanità impulsiva e superficiale e fortunatamente è raccolta tutta sui social. Dovremmo essere felici di questa cosa, perché poi le persone che noi frequentiamo non parlano così, non dicono queste cose tremende. È pure così: sovranisti, occhiali da sole, pensieri orrendi. Poi arrivano a casa e sono dei bravi padri di famiglia; lì sopra scaricano tutta la loro parte tremenda.

Ecco, questa cosa sui libri, sulla carta stampata, non avviene.

Ovviamente ci sono anche dei luoghi ottimi su internet. Il Post sembra che sia una bolla tutta di gente intelligente, più profonda, più le persone educate, si può fare.

È solo che fa più rumore l’altra parte.

Sid: Nel tuo percorso analogico, hai detto ok, visto che tutti  sono sui social, io faccio di nuovo una fanzine..

Luca: La fanzine mi piace. Qua sei alle origini. Io faccio delle cose parallele come tanti, però non faccio tanti piani precisi. Cioè, tu oggi mi hai detto “vengo alle 10”, ho detto “beh, arriva poi alle 11”, no, sei arrivato proprio alle 10. Non riesco a essere così preciso, per cui a un certo punto mi viene da dire “ok, voglio far uscire il libro a dicembre”, però se non è pronto, pazienza, uscirà a febbraio, ma che esca come si deve. Nessuno ci mette questa gran fretta. Alla fine sono uscite la fanzine e il libro insieme, perché erano in lavorazione insieme. Questa, ovviamente, con una lavorazione molto più breve. C’è questa realtà che si chiama “Tazi Zine” di Fabrizio Falcone e altri suoi soci. Lui è stato un mio allievo da quando aveva credo 15-16 anni, gli facevo lezioni di graffiti e poi è stato mio allievo con l’Associazione Calligrafica Italiana. Poi a un certo punto gli ho detto “senti, vieni qua a lavorare in studio”. E adesso fa il tipografo, il type designer, ha anche trovato la sua strada che è più sul disegno di type. Ma ha anche questa passione smodata per i graffiti e, come tanti writer che guardano la scrittura, ovviamente guardano anche la storia recente. Quindi, per lui io sono il passaggio prima di quella che è la generazione successiva o le generazioni successive. E quindi ho visto che stava facendo un po’ di fanzine su altri writer e su Milano in generale. A un certo punto gli ho detto “guarda, io ho delle pile di bozzetti alte così. Alcuni sono degli anni fino al 2000 qualcosa, 2002-2003, e altri sono tutti recenti. Vogliamo fare qualcosa, renderli pubblici?”. Non so, alcuni fanno molto ridere perché sono veramente il brainstorming, come si chiama adesso, “doodling”, che ti metti lì a disegnare e viene l’equivalente del freestyle, quello che ti viene fuori dalla testa. E quindi fanno ridere perché mi ricordo quando li ho fatti, dove ero, ci sono un sacco di stupidaggini. Ne abbiamo stampate 150 con la copertina scritta a meno, taggate. Ero dopato alla fine perché io non ho mai fatto 150 scritte con questa vernice qua, hai presente?

Sid: Queste sono tutte fatte a mano?

Luca: Sì, una alla volta. Ma questi sono proprio vernice, hai presente?

Sid: I marker argento?

Luca: Hai presente l’odore? Però ce l’hai presente di qualche tag? fanne 150 e  insieme e diventa tipo droga.

Sid: Bellissimo, avresti dovuto metterti la mascherina come quando usi gli spray, altrimenti muori.

Luca: No, no, invece le ho proprio respirate volentieri. E quindi niente, alla fine viene fuori questa passione smodata per il bozzetto, per la scrittura libera. Fino al 2003 non avevo proprio cominciato a fare completamente il mio mestiere, lavoravo part-time in un negozio, non avevo fatto il salto. Mentre gli ultimi sono tutti sketch fatti quasi tutti di notte. A casa non ho nulla di scrittura, quasi niente, pochissimi libri, pochissimi strumenti, un minimo indispensabile perché mi può capitare di fare una modifica, un lavoro, così devo avere da scrivere, ma pochissimo, cerco di fare altro proprio per tenere sana la passione. Però dicevo “cavoli, poi per piacere quand’è che scrivo?”. È raro che mi metta qui a fare una cosa per me adesso. Allora mi sono messo a fare i bozzetti la notte, che era perfetto quando hai tempo di ascoltarti un disco. Metto il disco e disegno e lì parte la mano. A volte hai fumato, a volte hai sonno, poi ti passa il sonno. Cioè quel momento strano in cui sembra sia già ricominciato un giorno, però vengono fuori delle idee che di giorno non hai perché comunque il tuo corpo, il tuo cervello è come un motore. È un motore e quindi parte la mattina freddo, poi alla fine della giornata siamo un po’ programmati per spegnere questo motore e farlo riposare. Ma se il motore resta acceso, poi succedono delle cose strane che non rientrano più in questo flusso del quotidiano. Bruce Mau diceva “lavorate di notte, succedono cose interessanti” e io dicevo “ma col c***o, io di notte esco e faccio quello che mi piace fare, non certo lavorare!”.

Eh, però lì fai il salto certe volte, ti vengono fuori delle idee perché la mente non è completamente lucida, ma non è neanche completamente focalizzata su quelle che sono le dinamiche normali. Fa quasi paura, eh, perché ti vengono fuori delle idee che dici “ah c***o, questa è una bella idea, adesso la devo realizzare”. Ormai l’ho vista, non posso far finta di non essere sicuro. Questo perché c’è questa cosa che secondo me dovrebbe essere insegnata nelle scuole: che se scopri di avere un qualche talento, dovresti essere proprio responsabilizzato a utilizzarlo. E lo dico anche contro di me, perché potrei averne degli altri che uso, usicchio, ma non lo uso professionalmente e proprio perché ho paura. Perché poi si trasforma in qualcosa che potrebbe non piacerti più o potrebbe essere molto molto diverso da come lo hai conosciuto.

Cioè, adesso mi piace anche cucinare, ma una cosa è rendere felici i tuoi ospiti e avere tutto il tempo di farlo e essere giudicato fino a un certo punto. Un’altra cosa è farlo professionalmente tutti i giorni con le dinamiche che conosciamo. E quindi no grazie, me lo tengo per me.

Sid: Ecco, senti, parliamo anche della tua parte musicale. Allora mi dicevi che hai pronte ristampe, cose nuove anche di te come MC, oltre noi sappiamo la tua passione per il jazz e tutto il resto che…

Luca: Come rapper, direi, perché ho sempre tenuto un po’ a distinguere questa cosa. Tempo fa ero al Politecnico con Tormento e Baro a fare una specie di conferenza e ci tengo sempre a ribadirlo, l’ho fatto anche quella volta. Una cosa è un MC, un Master of Ceremony, una figura che forse non esiste neanche più tanto. Diciamo, è un termine old school che, essendo io che arrivo da lì, spesso poi mi viene da girarla. Ma è giusto, però è anche uno che innanzitutto un MC, secondo me, fa i live. È presente dal vivo e non solo dice la sua, ma la fa dire anche agli altri. Cioè, fa un po’, a un certo punto, il Maestro di cerimonia, quindi tiene il palco anche a favore del divertimento di tutti quelli che sono lì presenti. Ed è una figura importante nell’Hip Hop e lo era tantissimo nel passato. Se pensi ai vecchi MC, livelli proprio che tengono banco, cioè conoscono tutti, “ora entri tu, esci tu”. Esa è un MC, è un MC e pochi altri.

Io sono un rapper, cioè scrivo delle cose, le “vomito” su una base, non faccio neanche più i ritornelli, però sento l’esigenza di fare quella cosa lì. Sto lavorando da tanto tempo, o se si può chiamare un lavoro, a cose nuove, ma scrivo veramente. Sto anche anni a sentirmi un pezzo fino a quando ne sono convinto, non ho fretta di nessun tipo e lo faccio veramente per me. Anzi, me la “meno” quasi a condividerlo, perché poi quel pezzo lì non è più tuo.

So che è successa questa cosa: mia figlia che ha 9 anni e ovviamente ascolta musica contemporanea, qualcosa anche di Hip Hop – non le piace tantissimo quello italiano, ma conosce qualcosina, ha i suoi gusti – però conosce anche le mie cose, qualcuna sì, qualcuna anche a memoria. Allora mi ha detto un giorno “ma stavo cercando di farti sentire su Spotify una tua canzone e non la trovavo!”. Gli faccio “eh sì, non si trovano, si trovano in altre parti”. E sta zitta un attimo, poi mi fa “ma però che peccato quando c’è una bella canzone non poterla sentire!”. E lì è stato veramente una fucilata e ho detto “devo sistemare delle cose”.

Il disco “Lingua Ferita”, era uscito in free download nel 2005 e era proprio una specie di sfogo. Stavano uscendo tutti i rapper per le major e io ho detto “ok, faccio la mia cosa nel mio modo” e l’ho fatta in una settimana, si sente anche che proprio c’è l’esigenza. Però ho fatto sui beat strumentali, è stato così per tanto tempo. Poi ho fatto una piccola stampa in vinile, però adesso questo disco compie 20 anni.

Quindi ho chiesto ai miei amici producer, che in realtà sono pochi e in questo caso ho dovuto stringere, diciamo, la rosa possibile di candidati a quelli che frequentavo in quel momento, che frequento, con cui mi sento spesso e con cui ho affinità, che sono Fritz e Craim, con cui abbiamo fatto tante cose belle e altre bellissime, come direbbe Kaos One.

E per dire, Craim mi aveva già aiutato in questo progetto che noi abbiamo con il nostro gruppo che si chiama “Pink Freud”, ci va l’acido e l’analisi. E questa era una colonna sonora della mia mostra in cui Craim ha fatto la musica guardando i miei quadri. Di questo ho fatto anche questo cofanettone che si chiama “Lost in Strokes” che contiene appunto il disco, il catalogo e anche dei poster della mostra. Insomma, come dire, fa parte di quel discorso di storicizzare, storicizzare bene. Queste cose qui sono un bagno di sangue, non ci guadagni mai niente, però poi le guardi e dici “che figata che abbiamo fatto”. E alla fine credo che sia tutto lì.

Poi vabbè, io nel tempo avevo fatto un vecchio demo che poi era uscito anche in vinile, ma veramente qui ho una voce quasi da bambino, avevo 18 anni. Fai conto che era uscita la pubblicità su Aelle credo nel ’98. E lì mi hanno messo con il mio business di fare le cassettine stampate bene. Ancora non era arrivato il CD e il vinile l’avevamo abbastanza abbandonato. E quindi sì, ho continuato a fare queste cose qui.

Nel frattempo ho fatto un altro disco strano, che è un disco che si chiama “The Griptape”, simpaticissimo, proprio veramente simpatico… no, per quello più dark che abbia mai fatto è questo, ma posso fare di peggio.

E l’abbiamo fatto io, Clone e BOD in particolare, che ha curato già delle altre cose mie. Uno si chiama “L’ultima scena”, c’è un video che era sul disco di Nice & Kini, che è questo 7 pollici qui. E ha fatto una cosa già lì assurda, perché mi ha detto “ah, vorrei farti un video”. Lui è il mio fratello di lunga data, in memoria di quelli che restano un po’ nell’ombra perché sono gente della Brianza, come April Trillando, Bastino. Sono bravissimi, però sono di provincia. Solo che lui quando ha sentito il pezzo che era pieno di immagini – se sentite “L’ultima scena”, capite di cosa parlo – ha fatto questo video in cui ogni parola che dico è descritta da un’immagine, da un frame di un film. E quasi tutti sono film di genere. Vuol dire che devi conoscere tutti quei film lì per farlo in una notte come ha fatto lui. E lì devi avere una cultura, cioè deve aver proprio tritato videocassette come un pazzo negli anni ’90. E tu vedi che proprio ogni cosa che dico c’è un’immagine.

Allora io ho detto “ok, fai la stessa cosa qui su Griptape, facciamo un disco di beat lentissimi”. Questo perché Clone ha dei beat molto lenti, basati sui sample; molti glieli ho dati io, molti sono i suoi. È un lavoro di selezione, perché tipo su 100 beat, ne abbiamo tirati fuori una ventina, una trentina forse. E BOD ha fatto la stessa cosa del video con l’audio, quindi ogni beat ha dei pezzi di audio, di parlato, di vari film che costruiscono poi una storia che culmina con un pezzo mio. Griptape è la carta vetrata dello skate. Quindi cosa possono fare dei simpaticoni così se non fare una copertina di carta vetrata che poi rovina gli altri dischi?

Simpaticissimi, simpaticissimi! Questi sono gli sfizi che ci togliamo.

Quindi adesso uscirà questo “Lingua Ferita” remixato da Fritz e da Craim, che hanno fatto un ottimo lavoro anche perché sono un po’ diversi a produrre, però stanno bene: Craim è  molto più aggressivo, ruvido, tagliente; Fritz è ormai un compositore, cioè tu parti dal campione, ma poi risuona tutto e guarda molto le strutture dell’armonia dei pezzi, cosa che prima magari faceva meno, era tutto basato sul sample.

Una cosa interessante che è successa è che l’ultimo pezzo di “Lingua Ferita” si chiama “Il Caimano”. Uscì un anno prima de “Il Caimano” di Nanni Moretti e parlava di Berlusconi. Ora, Berlusconi ha lasciato di sicuro una traccia, una traccia tangibile del suo passaggio, nel bene e nel male. Però era imbarazzante far uscire un pezzo su Berlusconi adesso. Cosa è successo? Che io all’epoca salvavo tutte le sessioni di registrazione non su un hard disk, ma su CD – non so perché, non avevo questi hard drive di adesso capienti – quando ho ritrovato tutti i master di “Lingua Ferita”, che era una serie di CD con le voci separate, non c’era più quello de “Il Caimano”, non si trovava. Io ho detto “perfetto, mi ha tolto dai bracieri” perché non avrei saputo come giustificarlo.

E fra l’altro è stata una mia “defiance” perché io ho sempre saputo che dovevo scrivere per quanto possibile non sulla stretta attualità. Fin da quando ho iniziato a scrivere da ragazzino, ho visto che le cose che rimanevano, tipo “Sfida il buio”, non parlavano del fatto storico in sé, non dicevano date, però parlavano di una macro storia che poteva anche ripetersi. Certo, la strage di Bologna, però parla in generale di tutto quello che è tenuto nascosto. Il buio c’era. Esprimersi in quel modo rende i pezzi universali e longevi. Se senti le strofe di Deda, hanno poco e pochissimo di attualità.

Quando ha dovuto, quando ha citato qualcosa di attuale – non so Neffa che diceva “prima o poi Castagna… se muore Castagna non lo puoi più dire, forse dire un’altra cosa” – non so. Però tutte le cose che faremo con l’attualità, ovviamente, invecchiano e quello è stato uno dei pochi errori. Era talmente forte la sua presenza che sentivo di voler parlare. Lì non c’erano manco i social.

Ci sono delle cose nuove nel disco nuovo che sto scrivendo. Parlano di Trump senza citarlo, ma della sua precedente presidenza. Ora è ancora attuale, purtroppo, e per quattro anni sarà ancora attuale. Però bisogna stare attenti a queste cose, secondo me, quando si scrive. Cioè, scrivere qualcosa che superi il momento. È chiaro che quando fai un freestyle, una cosa istantanea, proprio ti viene da citare cose della giornata, anche perché sono forti. Però poi non durano oltre quella giornata, quella settimana. Allora secondo me è importantissimo che cerchi di parlare di una cosa usando un linguaggio che esuli il tuo piccolo mondo.

“Lingua Ferita” è un disco, per esempio, che parla a tutti. Quando è uscito lo apprezzavano anche persone  che non facevano parte del mondo Hip Hop e questo mi è piaciuto molto. Parlare a tutti. Ma perché devo usare un linguaggio che mi chiude la possibilità di arrivare a più persone, pur essendo una cosa underground? Il disco parla anche di rabbia e la rabbia ce l’abbiamo tutti.

Quindi se riesci ad arrivare a un’altra persona con una rabbia contenuta all’interno di un prodotto artistico e che non va a sfociare nel danneggiare gli altri, ecco, la rabbia arriva: Il messaggio però è di trasformarla in qualcosa di creativo, di positivo, perché la rabbia è comunque un’energia. Se tu sei condotto dalla rabbia, poi sei “spompo” per fare del bene e per farti due risate, perché ti consuma, fa schifo proprio. Però è la rabbia è parte di noi, devo dire che ultimamente è anche molto stimolata, purtroppo.

Sid: Prima hai detto che nella tua carriera c’è stato un momento in cui hai dovuto fare il passaggio da tipo amatore a professionista. Chi ci sente e che magari è nella fase in cui non ha mai pensato di far diventare una professione la sua passione, come hai fatto tu a fare questo passaggio?

Luca: Io non ho consigli da dare in maniera generica a tutti perché ognuno ha la sua storia, la sua indole. Quindi ne darei volentieri, non so, a delle persone che conosco, però poi bisogna anche vedere caso per caso.

Allora posso raccontare dal mio punto di vista. Questa cosa può magari essere utile a qualcuno che si riconosce un po’ nella mia storia. Io non vengo innanzitutto da un esempio virtuoso di imprenditoria, come invece hanno avuto altri miei amici. Sono stati abituati magari ad avere i genitori che fanno promozione delle proprie cose, che hanno un negozio, che hanno un’attività, che hanno un’azienda. Io in qualche modo ho dovuto fare questo: l’azienda ero io e dovevo promuovere me stesso, il mio lavoro con la mia faccia. Non è uno studio, no, è una persona proprio.

Quando avevo una ventina d’anni, ero molto focalizzato sull’imparare bene il mestiere. Quando dal writing ho scoperto la calligrafia, ho detto “ok, questa cosa è seria”. Quindi facevo solo calligrafia. Qualcuno mi diceva “non buttare via quello che hai imparato nel writing”. No, però “adesso devo imparare quello che è usare bene una penna con gli stili classici, poi casomai verrà da sé”.

Ed è venuto da sé. Cioè, ho iniziato a fare calligrafia seria con lettere che venivano dai graffiti, ma capivo che invece questa cosa aveva senso, perché se tu fai dialogare le due cose… Quindi molti hanno visto in questo esempio qualcosa da seguire. È naturale che molti tentino di replicare il tuo percorso, anche a volte di scopiazzare, normale, l’abbiamo fatto tutti, no? Poi uno si augura che nella fase più seria capisca che “ok, io sono il mio brand”, che è una brutta parola, però diciamo “io sono il mio marchio, sono quello che faccio io”. A volte la mia faccia. In realtà mi sono trovato un’attività che a volte contempla l’esibizione dal vivo, quindi davanti a delle persone, che è la cosa proprio che mi ha fatto allontanare dall’essere rapper, perché proprio l’aspetto dal vivo è la cosa che proprio non mi piace, si divertono tutti tranne me. Ma nella calligrafia puoi fare questa cosa di spalle, e credo che ci sia io e qualche pornoattore che possono stare di spalle dove tutti ti guardano… non so, mi vengono in mente pochi esempi.

E io poi volevo fare il grafico in realtà, sono stato molto stimolato dalla grafica editoriale. Grafica editoriale c’era la tipografia, ho provato un po’ di tutto: la stampa coi caratteri mobili, l’incisione, fatto un sacco di workshop. Poi a un certo punto mi chiedevano loghi, lettering per tattoo, lettering per dischi autoprodotti, la nostra cerchia dei musicisti. Non solo questi, ma anche questi sono business.

Casino Royale, Nina Zilli, Giusy Ferreri, Fred de Palma, ma anche Claver Gold, Phil, Cesare Picco pianista, DJ Fede. A volte mi è capitato di lavorare per amici e così facevo all’epoca. E a un certo punto devi accettare questa cosa. Tu vuoi fare il grafico, vuoi fare una cosa, ma ti cercano per l’altra, per la calligrafia. Si vede che devi fare quello. Allora a un certo punto ho sventolato la bandiera bianca, ho detto “mi arrendo, farò questo” con un grosso punto di domanda, un fumettone sopra di me che, diciamo, “che c***o di lavoro è?”.

Eppure è un lavoro, perché mi ha portato a fare di tutto, a crescere umanamente, perché prima ero nella mia bolla, del writing, dell’Hip Hop che, come tu sai ma forse tanti non sanno, era molto circoscritta, era una cosa di pochi eletti o pochi, era una specie di sett. In realtà, ecco, collegandomi a questo discorso qui, la risposta alla tua domanda è: il passaggio deve essere naturale e deve essere una cosa che senti.

Quindi se non hai voglia di stare delle ore a scrivere, soprattutto facendo cose che ti vengono chieste, quindi non è quanto sei bravo a fare il gotico, è quanto sei bravo a trovare lo stile giusto per quel progetto e anche in fretta. È questo che poi ti viene riconosciuto da designer, da artista, per quello che vuoi, ma un’altra cosa.

Quindi prima capire se sei un artista o se sei un designer. Sei disposto a stare con delle persone molto diverse da te che ti dicono cose che magari non sono corrette, ma ti pagano? A volte sì, ti tocca, ma cerchi di migliorarla questa cosa, di uscirne. E per uscirne devi prenderti delle responsabilità, magari perdere qualcosina, perdere il cliente con più soldi, però dici “là sono libero”.

A volte invece fai dei compromessi. Questa cosa mi ha fatto riflettere e collego qui tutti i punti che ho messo sulla mappa finora su quello che ero io e che cosa invece volevo essere.

Quindi, per fare un discorso un po’ più profondo, la vedo un po’ dal punto di vista antropologico: siamo fatti per stare in delle tribù. Queste tribù non dovrebbero avere più di tanti interlocutori. È per questo che una “shitstorm” sui social ti fa “sbarellare”, perché non puoi gestire migliaia di persone che ti insultano e che non conosci. Ma così come non è normale avere migliaia di complimenti di persone che ti incensano e che manco ti conoscono. Questo fa parte del comportamento tribale, in quel caso la tribù sono i social e le piccole tribù che ti trovi con gli account che segui o che vai a denigrare.

L’Hip Hop per me è stata una cosa in qualche modo tribale, cioè c’è tanta gente che si è trovata in un momento con tante identità, come gli anni ’90, che poi  in qualche modo positivamente sono finite sotto il grosso cappello dell’hipster degli anni 2010, presente, no? L’hipster si interessava un po’ di tutto, ma non era un dark, un b-boy, un metallaro. Poteva fare tutte queste cose insieme e questa cosa non piaceva molto alla generazione prima che aveva una vera identità. Invece questo avere una vera identità era molto bello anche se con degli aspetti negativi perché ti precludeva la possibilità di esplorare altro, altre persone e altri ambienti e altri altri tipi di musica, altri mondi. Quindi le jam degli anni ’90 stanno bene lì dove sono, in quel modo chiuso, perché era un modo per ritrovarsi una serie di persone “misfits”, cioè dei disadattati che non si adattavano bene alla moda della discoteca o andare alla partita la domenica. Volevano qualcosa di diverso e lì l’avevano trovato ed erano tutti insieme in questo mondo che però non ti lasciava troppo uscire fuori. Le contaminazioni non erano troppo ben viste, per quanto mi ricordo.

Quindi nel momento in cui io ho iniziato a fare il calligrafo e a lavorare, per esempio, con grossi marchi, ecco, lì andavi in zone che non ti erano concesse prima. E quindi ho visto che in realtà erano tutti comunque indottrinati in qualche modo. Potevi lavorare per il grosso marchio sportivo – senza fare nomi – perché comunque era figo ed era una multinazionale tanto quanto il marchio fighetto di abbigliamento che però era mal visto perché non era parte della nostra cultura. E lì ho detto “mamma mia, ma così piccolo pensiamo, o pensano”, perché io avevo già smesso di pensare in quel modo, fammelo dire.

E quindi io mi sono preso le conseguenze di questo, cioè gente che diceva, sembrava dire “hai tradito la nostra cultura”. Ma tradito che cosa? Cioè, in realtà posso dirti che quella formazione lì, così controcorrente che era fare il writer e il rapper negli anni ’90, sei fottuto, cioè te la porti con te tutta la vita.

Io conosco persone che non riescono a uscire da questo e qualcuno è riuscito a emanciparsi con fatica, magari a diventare grande. Qualcuno è impazzito perché fuori da quel piccolo mondo lì dove tutto funzionava, si è rotta quella barriera così delimitata che era “io sono un riferimento nell’Hip Hop e questa è la mia rivista, queste sono le fanzine, questi sono i dischi, quelli giusti, questi sono dischi sbagliati, commerciali”.

Fortunatamente il lavoro mi ha dato modo di entrare in ambienti diversi e di sapermi rapportare con quasi tutti gli esseri umani. Poi ci sono quelli che mi fanno schifo e quelli che no, però i clienti durano quello che durano, questa è una delle cose belle di fare freelance. Mi dispiace per quelli che sono ancora chiusi in quegli schemi mentali perché si perdono delle cose, cioè la contaminazione è inevitabile ed è quello che ha fatto evolvere tutto da sempre.

Quindi devi essere pronto a capire che la scrittura, così come l’hai conosciuta, sparisce, soppiantata da altro, ma può rimanere in maniera artistica o artigianale. E anche che l’Hip Hop che hai conosciuto 20 anni fa, 30 anni fa, non è più lo stesso. Per esempio, di recente c’è stata questa celebrazione di Sangue Misto del disco che fatto 30 anni.

Io l’ho comprato quando è uscito nel ’94, un ragazzino, mi ha formato, ma io non sono più lo stesso di 30 anni fa, e neanche loro sono così. C’era gente si stupiva perché c’era la celebrazione, io dipingevo, facevo la mia cosa celebrativa sul disco con la calligrafia ed Deda metteva la house. E questo è quello che siamo noi 30 anni dopo, grazie anche a quello, ma non possiamo più essere quello che c’era 30 anni prima, ed è giusto che sia così. Se qualcuno non lo capisce e pensa di vedere la celebrazione di Sangue Misto con tutti e tre che suonano il disco, non può succedere. Ma meno male, mi viene da dire, sarebbe patetico, capisci?

Sid: Bene Luca, abbiamo fatto una super chiacchierata, siamo a 69 minuti e questa la mettiamo tutta intera sul podcast.

Luca: Adesso vuoi fare dei botta e risposta?

Sid: No, beh, direi che hai spiegato molto bene la tua filosofia come calligrafo e diciamo anche della tua storia con l’Hip Hop. Praticamente abbiamo chiuso un piccolo cerchio. Tu hai iniziato, mi dicevi l’altra volta, come lavoro con le tag che ti avevo chiesto per Aelle ai tempi.

Luca: Fermiamoci un attimo su questa cosa: io a un certo punto arrivo in De Angeli nell’ufficio di Aelle, giusto? Sì. C’eri tu, la Paola e Silvia e dico: “Sid, so che vuoi fare questa rubrica AL Writing, io sono l’uomo giusto per te”, ma pensa te!

Eppure l’ho fatto. “Io voglio fare questa cosa seriamente e deve essere fatta bene, io lo sto studiando, insomma…”. Esco da Aelle con un contrattino con scritto “disegno di tag fissa”, “disegno di titolo”, “disegno…”. C’era il mio lavoro da calligrafo forse il primo ed ero poco più che maggiorenne.

Quindi sì, ho iniziato da quello, però sono contento che siamo qui a chiudere i cerchi.

Sid: Sì, e adesso poi vedremo anche un altro tuo lavoro per il progetto collegato di “Tag Tales” che poi vedremo più avanti, ne parleremo.

Luca: Il contratto però lo rinnoviamo magari, è ancora in lire! 

Sid:  Va bene Luca, grazie, grazie mille. È stato molto molto interessante sentire tutto quanto e ci sentiamo alla prossima.

Luca: Grazie mille.

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